di Isabella Monte | 19 Novembre 2017
«Whatever hour you woke there was a door shutting
(A qualunque ora ti svegliassi, c’era una porta che sbatteva)»
Questa la citazione di Virginia Woolf che si legge un attimo prima che cominci “A ghost story”, film dell’americano David Lowery, uscito lo scorso Luglio negli States, la cui proiezione non è purtroppo ancora prevista nelle sale italiane.
Non è un horror, come potrebbe lasciar intendere il titolo, bensì una piccola, eterea e terribilmente raffinata perla drammatica capace di atterrare come un macigno sul cuore dello spettatore.
La storia si apre in una casa, teatro di quello che, almeno dalle prime battute, sembra un ménage di coppia mediamente nella norma, destinato a durare, però, solo pochi minuti. L’uomo, infatti (interpretato da Casey Affleck), muore ad inzio film a causa di un incidente stradale avvenuto proprio davanti casa sua, lasciando la sua compagna, (interpretata da Rooney Mara), ad affrontare tutto il tormento che ne sarebbe conseguito.
Lo snodo fondamentale avviene in obitorio, quando, dopo che la donna ha salutato il cadavere del compagno per l’ultima volta, questi scatta seduto sul tavolino della morgue, poi si alza e, ancora ricoperto dal lenzuolo dell’ospedale, decide di far ritorno a casa.
“A ghost story” è un modo nuovo di raccontare il lutto e la sua elaborazione, puntando il focus, non tanto su chi resta, quanto su chi è andato via. La morte, così, viene raccontata attraverso gli occhi di chi è passato dall’altro lato della barricata. Occhi ricavati da due fori sulla stoffa di un lenzuolo: due buchi neri irregolari che, tuttavia, lasciano intendere una tristezza che nulla invidia a quella degli sguardi umani.
Un film frutto di una profonda riflessione, determinato ad infonderne altrettanta in chi lo guarda. Ma il punto, infondo, credo sia proprio questo: non è una visione destinata a chiunque, perché è chiaro sin dai primi frame che questo film esige uno spettatore paziente, caparbio e sensibile. A confermare questo aspetto vi è innanzitutto il silenzio che regna in quasi tutte le scene: un film muto per l’80% che lascia parlare le immagini, evocative fino alla commozione; un incedere tremendamente lento, proprio come lento è il percorso che porta alla presa di coscienza della morte e alla sua metabolizzazione; fermimmagine interminabili, che sfruttano la pianosequenza come lampante e geniale metafora dell’ineluttabilità degli eventi.
Una menzione doverosa, poi, la meritano le musiche di Daniel Hart, in particolare l’ipnotica “I Get Overwhelmed” dei Dark Rooms (gruppo di cui fa parte lo stesso Hart), che è uno dei leit motive del film, indubbiamente quello più emblematico.
In definitiva, Lowery ha scritto e diretto (in maniera tecnicamente ineccepibile), un’opera che si fa fatica a raccontare, perché vuole essere ammirata e compresa, quasi senza il bisogno di essere commentata.
Si parla di vita, di morte, di luoghi, d’amore e rabbia oltre la morte, e ce ne parla, in assoluto silenzio, un fantasma che non riesce a lasciare la sua casa nè la speranza di ritrovare, in qualche modo, la sua donna. E allora resta lì, immobile, spostandosi lentamente tra quelle che erano le sue stanze, e così lascia passare prima i giorni, poi gli anni, infine intere ere; passano le persone, nuovi proprietari, bambini da spaventare; passano addirittura le macchine demolitrici, ma lui è sempre lì, anche tra le macerie. Ad aspettare. E lo scorrere del tempo, testimoniato dall’usura del lenzuolo che indossa, non sembra pesargli, giacchè quando pare esser finito quello che ha a disposizione, lui ritorna indietro e ricomincia da capo, in un eterno loop che, alla fine, grazie ad un dettaglio lasciato ignoto allo spettatore, lo libera finalmente dal tormento.
Non è per tutti.
Per tutti gli altri è da non perdere.
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