di Isabella Monte | 27 Aprile 2018
Da riporre, molto probabilmente, sullo scaffale dei post-apocalittici, “A quiet place” è uno di quei film che traballa sul filo sottile che separa la genialità dall’inconcludenza, l’originalità dal riciclo.
Un lavoro a conduzione famigliare, quello dello statunitense John Krasinski, regista e protagonista della pellicola insieme alla moglie Emily Blunt, che ci rifila un nuovo, estenuante tentativo di creare un horror decente, datato terzo millennio.
Il risultato è esattamente un nuovo, estenuante tentativo.
I coniugi (tanto nella vita quanto sul set), con sostanziosa prole al seguito ed in grembo, si ritrovano a vivere in un mondo invaso da mostruosi predatori che attaccano e divorano gli esseri umani seguendo gli impulsi sonori. Le creature in questione, infatti, sono completamente prive di vista e, vien da sé, che l’unico modo per eluderne gli attacchi è eliminare qualsiasi forma di rumore o di suono.
Da questa premessa si sviluppa l’intero film, avvolto in un silenzio perenne ma non troppo insostenibile, intercalato da un paio di brevi dialoghi e dal rumore viscido e disturbante provocato dall’incedere dei predatori.
La famiglia Abbott, sopravvissuta per 472 giorni a questo nuovo assetto naturale della Terra, ha come unico obiettivo quello di continuare a condurre un’esistenza “normale” all’interno della propria fattoria, proteggendo ed istruendo i propri figli alla difesa personale. Lo fa eliminando completamente l’uso del linguaggio dalla propria quotidianità ed utilizzando quello dei segni (abilità che tutti i componenti gestiscono molto bene dal momento che la figlia è affetta da sordità).
Nei 95 minuti di quasi totale silenzio e di muti tira e molla tra buoni e cattivi, ciò che viene fuori è l’intenzione di regalare allo spettatore un prodotto nuovo che, sfortunatamente, così nuovo non è.
Non mancano delle interessanti panoramiche di esterni che rendono a tratti piacevole la percezione visiva del film né alcuni sforzi attoriali che confermano la fondamentale importanza comunicativa della mimica facciale, soprattutto laddove l’intento è proprio quello di raccontare una storia ovviando all’uso delle parole.
Tuttavia qualcosa non convince pienamente, a partire proprio dall’aspetto fisico un po’ troppo sci-fi dei predatori, a metà strada tra Alien vs. Predator ed il demogorgone di Stranger Things.
L’allegoria da estrapolare è sicuramente quella della genitorialità e delle difficoltà che vi orbitano intorno e, forse, da questa prospettiva, l’idea e la sua messa in atto risultano indubbiamente più efficaci.
Consigliato ai taciturni e a quelli che riescono ancora a sorprendersi.
Solo un altro nuovo file da caricare nel drive per chi, invece, crede di averle già viste tutte.
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