di Isabella Monte | 04 Luglio 2018
Il greco Yorgos Lanthimos, dopo aver diretto “The Lobster”, film che, nel 2015, si aggiudicò il Premio della Giuria a Cannes, rendendolo noto anche al grande pubblico, bissa l’intenzione di portare sullo schermo un’enorme metafora.
Lo fa in maniera diretta e perentoria, senza preoccuparsi troppo delle reazioni del pubblico e senza velare molteplici riferimenti al cinema Kubrickiano, evidentemente presenti per quasi tutta la durata del film.
Ma procediamo per ordine.
Il titolo “The Killing of a sacred deer” (italianizzato “Il sacrificio del cervo sacro”) è un chiaro richiamo a Ifigenia di Aulide, tragedia di Euripide, dramma di un padre costretto adimmolare la propria figlia per il bene della flotta greca. Nel momento del sacrificio, tuttavia, per mezzo del classico intervento divino. la ragazza scompare e, al suo posto, appare una nuova vittima sacrificale: una cerva, appunto.
Lanthimos inserisce tutti (o quasi) gli elementi della tragedia ellenica, avvalendosi delle straordinarie doti recitative di Colin Farrell, nella parte di un rispettato cardiochirurgo, e di una superba Nicole Kidman, oftalmologa e moglie del cardiochirurgo.
I due coniugi, genitori di due figli, si ritrovano ad affrontare un dilemma esasperante quando, nella loro vita, fa ingresso Martin, adolescente ambiguo e singolare che darà il via ad un vortice di tensione che lo spettatore sembra attendere fin dalle prime battute.
Il film, che si apre con un minuto di buio per poi mostrare, senza troppi fronzoli, un cuore aperto, lascia poco spazio all’immaginazione.
È volutamente crudele, nei dialoghi più che nelle immagini, nelle intenzioni ancor più che nelle parole.
È un film in cui si dicono le “cose che non si dicono”, quelle che ci limitiamo a pensare perché l’idea di dargli voce ci sembra abominevole.
Esemplare, a tal proposito, è il momento in cui il dottore, nel tentativo di scoprire se il figlio stesse fingendo una grave
condizione clinica, gli rivela uno scabroso segreto della propria infanzia, mettendo in scena un paio di minuti dialogici ben più osceni e disturbanti del cuore aperto iniziale.
Tecnicamente impeccabile, il film è un piacere per gli occhi e per gli appassionati di Kubrick: dall’angolazione dei frame alla progressiva discesa negli abissi più cupi della mente umana, dalla
presenza stessa della Kidman al modo in cui Farrell la fissa mentre dorme (impossibile non pensare a Nicholson), dalle musiche e la loro collocazione alla violenza improvvisa e per niente necessaria,
tutto sembra palesemente e gradevolmente ricondurre lo spettatore a capolavori come Shining, Eyes Wide Shut e 2001:Odissea nello spazio.
Ogni cosa, alla fine, si riduce ad una raffinatissima roulette russa che vuole riconfermare uno dei mantra del cinema di Lanthimos: i buoni non esistono e le nostre scelte non fanno altro che confermarlo costantemente.
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