di Isabella Monte | 06 Luglio 2018
Steven Soderbergh, che ricordiamo per aver diretto pellicole celeberrime come Ocean’s Eleven, Magic Mike, Erin Brockovich e Contagion, per il suo ultimo lavoro, non ritorna dietro la macchina da presa, bensì dietro un iPhone 7 plus.
“Unsane”, nelle sale italiane dal 5 Luglio, è infatti interamente girato con il dispositivo marchiato Apple, eppure, con tutta probabilità, nessuno spettatore noterà la differenza.
A dispetto di quanto si legge in giro, Unsane non è un horror. È un thriller a tutti gli effetti che, pur non rispettando metodicamente il ritmo canonico del genere, riesce a tenere alta l’attenzione di chi lo guarda, portando sullo schermo delle tematiche interessanti e tristemente diffuse.
Il topic principale è lo stalking, tuttavia, la questione della malattia mentale e dei centri di recupero, rimane un leit motiv impossibile da trascurare per tutta la durata del film.
La protagonista della storia è Sawyer (Claire Foy), vittima di stalking, psicologicamente provata dai drastici cambiamenti che ha dovuto apportare alla propria vita, al fine di tutelarsi dalle ossessive molestie del proprio stalker (Joshua Leonard).
Sawyer, però, nonostante il trasferimento in una nuova città, continua a non sentirsi sicura e a vedere il suo molestatore ovunque. Decide, allora, di rivolgersi ad una specialista ma si ritrova, contro la sua volontà, rinchiusa in un centro di salute mentale strabordante di negligenza e corruzione. Proprio qui, Sawyer sarà costretta ad affrontare i propri demoni.
È un thriller disseminato di piccoli colpi di scena che si fanno metabolizzare molto semplicemente. Il twist decisivo, però, non avviene quasi in dirittura d’arrivo, come spesso accade nel tradizionale pattern del genere, ma ad un terzo della durata.
Questo, tuttavia, non sembra banalizzare la restante parte del film che, anzi, aumenta di spessore concettuale.
Una narrazione poco prevedibile che, pur portando una leggera brezza fresca su di un filone che pare aver già raccontato quasi tutto, vacilla un po’ soltanto nel finale.
Godibili quasi tutte le prove attoriali (da non perdere il brevissimo e grottesco cameo di Matt Damon).
Il film offre poco dal punto di vista prettamente visivo ma punta all’astrazione, all’idea che dirige l’intera trama, incatenando lo spettatore alla consapevolezza che ciò che scorre sullo schermo, seppur estremizzato (ma neanche tanto), è lo specchio di ciò che avviene fuori dalla sua porta di casa.
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