di Isabella Monte | 24 Settembre 2018
L’horror è morto da tempo, lo sappiamo. Ciò che forse ancora non tutti sanno è che “The Nun – La vocazione del male” è assolutamente colpevole di vilipendio di cadavere.
Attualmente nelle sale italiane, The Nun, diretto da Corin Hardy (già regista di un paio di dimenticabilissime pellicole del genere), si inserisce sullo scaffale della saga “The Conjuring” e riesce in un’impresa che pareva impossibile: battere in bruttezza e banalità tutti i capitoli precedenti.
Il problema alla base di questo film è lo stesso che ricorre nella maggior parte degli horror di ultima generazione: il potenziale spesso insito nella storia di partenza viene puntualmente svilito (o completamente polverizzato) da una messa sullo schermo assolutamente disdicevole, sia dal punto di vista prettamente tecnico che da quello delle prove attoriali.
Del cast viene fuori quasi esclusivamente Taissa Farmiga (nel ruolo di sorella Irene), figlia d’arte che, nonostante si piazzi una spanna sopra al resto, non riesce comunque a convincere ed incidere così come invece ha saputo fare nelle varie stagioni di quel preziosissimo gioiello seriale che è American Horror Story.
La vicenda si svolge in Romania, ma se vi aspettate le ambientazioni sublimi del Dracula di Bram Stoker di Coppola (cosa che io, vi confesso, ho ingenuamente sperato), tenetevi pronti a gestire una cantonata colossale.
Il film può essere riassunto attraverso una sterilissima concatenazione di stereotipi ricorrenti: abbazia sperduta – croci – croci capovolte – suore – spiriti demoniaci – croci – suore – spiriti demoniaci vestiti da suore – finale prevedibile.
Anche le parole spendibili in rapporto all’aspetto puramente visivo, non sono di certo incoraggianti: tutte le scene sono immerse in un buio pesto che, invece di essere inquietante o orrorifico, risulta solo estremamente fastidioso, dal momento che, spesso e volentieri, si fatica a distinguere quello che sta accadendo sullo schermo; menzione a parte, poi, per gli esterni, che sono tutti avvolti da un’improbabile aura bluastra e da quelli che sembrano gli scarichi di una vecchia macchina del fumo impazzita e che fanno venire in mente una certa cinematografia risalente alla metà degli anni ‘90.
Un’unica scena, a mio parere, è meritevole di essere ricordata, perché è talmente kitsch da risultare squisitamente pulp e perché, per chi, come me, non è proprio un timorato di Dio, è portatrice di una sorte di divertente e metaforica blasfemia.
Il fine ultimo di un horror, tautologicamente, è quello di spaventare lo spettatore, ma la paura, che pure è spesso irrazionale, acquisisce peso quando quello che è proiettato sullo schermo è quantomeno verosimile o potenzialmente realizzabile.
Le notti buie e tempestose e gli ectoplasmi che deambulano a mezz’aria, hanno più il sapore di una parodia.
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