di Simona Colletta | 24 Agosto 2017
«La nona edizione del Premio Terre del Negroamaro ha segnato un clamoroso fallimento; è stato privato del suo significato ed è destinato a fallire ancora sino a scomparire». Sono alcune frasi tratte dal comunicato stampa del gruppo consiliare di opposizione del Comune di Guagnano “Vite in Comune” ( Francois Imperiale, Mimma Leone, Antonio Degli Atti e Giusy Ricciato) che di seguito riportiamo integralmente.
I consiglieri di minoranza hanno redatto un minuzioso resoconto delle due serate del Premio, andato in scena il 17 e 18 agosto scorso.
«“La Trahison des images”, ossia il “tradimento delle immagini”: non tutto quello che vediamo è quello che sembra. Con questo paradosso “magrittiano” si è aperta la nona edizione del Premio Terre del Negroamaro; la location scelta, il Sudestudio, ha offerto lo scenario suggestivo di una distesa di ulivi e vigneti illuminata da un tramonto meraviglioso. Non poteva esserci sfondo migliore alle parole del Professore Di Renzo, che fra Dioniso, Rimbaud, Nietzsche e Magritte, ha reso però evidente il paradosso logico-linguistico che rompe l’incastro fra la cosa reale e l’immagine, oltre che rappresentare a tratti spunto per le nostre riflessioni.
In sintesi, il nostro evento non è PIU’ UN EVENTO, NON E’ PIU’ L’EVENTO; ha conservato il nome, ma ha perso forma e sostanza, identità e qualità – spiegano da Vite in Comune – il Premio di quest’anno è sembrato, a chi aveva occhi per guardare, più volto a curare le relazioni amical-sentimentali di qualche Assessore, piuttosto che rappresentare, come auspicato, il momento cardine di una strategia di marketing territoriale.
Sin dalla prima serata, a forte carattere elitario ed autoreferenziale, definita dall’Amministrazione e dal CTO “anteprima”, era tangibile come la comunità guagnanese, che insieme all’identità territoriale e all’enogastronomia locale sarebbe dovuta risultare la legittima protagonista, fosse paradossalmente stata tagliata fuori dall’evento, non solo per l’evidente distanza dal centro abitato, ma anche a causa della latitanza di quell’empatia e coinvolgimento viscerale con il territorio che sarebbero rimasti assenti per le intere quarantottore.
Non stupisce pertanto che l’interessante lectio del Professore di Tor Vergata rimbalzasse da un orecchio all’altro dell’esiguo numero dei presenti, una quarantina compresi amici e parenti, con un senso di soggezione che forse solo Don Pasta poteva quanto meno alleviare, apparendo più consona alle mura di un’aula universitaria piuttosto che alle sensibilità di una comunità contadina.
Si ha difficoltà a comprendere la scelta dell’Ill.mo docente di Tor Vergata (impegno di spesa pari ad € 700,00) pur avendo a disposizione fior di antropologi ed esperti di enoturismo presso l’Università del Salento, Ateneo storicamente legato al Premio, alla cui istituenda Facoltà di Enologia peraltro si è scelto quest’anno di assegnare il premio principale.
Annullato qualsiasi proposito di ricaduta positiva sul territorio, l’occasione per ristabilire il contatto con le finalità del Premio, per quanto ghiotta, è stata disattesa anche il giorno dopo: la serata del 18 agosto si è presentata senza struttura, senza contenuti, senza magia. E’ opportuno e doveroso precisare, sperando di evitare inutili strumentalizzazioni, che senza l’aiuto di tutte le persone che hanno offerto volontariamente il proprio contributo, non potremmo nemmeno parlare di tutto questo. Ma è altrettanto necessario scindere il lato emotivo da quello organizzativo, indirizzando ogni analisi all’obiettivo comune di rendere migliore il posto in cui abbiamo scelto di vivere.
Occorre avere l’onestà intellettuale di ammettere che la nona edizione del Premio Terre del Negroamaro ha segnato un clamoroso fallimento sul minuscolo, meglio inesistente, calendario dell’estate guagnanese, nonostante le ingenti risorse economiche destinate allo stesso, con un impegno di spesa di 54.000 euro di risorse pubbliche.
L’impianto strutturale si è mosso nella schizofrenia, nell’improvvisazione assoluta, dove l’azzardo autodistruttivo di far convivere il tutto con il suo contrario ha generato confusione e nonsense.
Il percorso enogastronomico alternava aziende che si caratterizzano per la loro eco sostenibilità, utilizzando materiali completamente biodegradabili, o scegliendo prodotti prettamente biologici, ad altre che hanno servito il loro cibo in piatti di plastica, senza dare nessuna descrizione nè del prodotto nè della sua provenienza.
La dissociazione è tale che si poteva trovare, accanto al concetto del riciclo, una bottiglia di plastica riempita di terreno e adornata da un fiore finto che a sua volta dovrà essere, si spera, riciclato. Oppure si poteva anche trovare, accanto alla porzione di cibo salentino selezionato e sapientemente somministrato, il prodotto da banco cassa che, per quanto invitante e piacevole al palato, sviliva la linea perimetrale del Premio, abbandonando definitivamente ogni tentativo di ricerca sull’abbinamento piatto-vino capace di raccontare tipicità ed unicità dei nostri prodotti.
Altra nota stonata e dolente: la partecipazione di aziende di assoluta qualità non appare idonea a celare la assenza di quelle attività locali che, dotate di altrettanto profilo e lustro, continuano a non comparire nel percorso enogastronomico ormai da diverse edizioni.
Alla solita mancanza di contenuti forti, si sono aggiunti la totale assenza di un piano di allestimento che ha dimenticato intere strade vuote o al buio, l’assenza di espressioni artistiche e di un’idea di bellezza e magia legate al territorio, inesistenti fuochi di spettacolo raffinati e suggestivi.
Emblema del fallimento di questa edizione del Premio è stata la scellerata ed avvilente gestione del luogo simbolo della tradizione del territorio, il Museo del Negroamaro, interdetto al pubblico fino ad una certa ora e poi relegato ad espressioni artistiche meglio contestualizzabili in tutt’altro luogo, completamente slegate sia dalla forte simbolicità del luogo in termini di storia e tradizioni, sia dal significato alto e dalle riflessioni indotte dalla mostra fotografica di Fotofucina, presente nel giardino retrostante.
Dappertutto è emersa la totale mancanza di coordinazione, di ricchezza concettuale e di parametri uniformi che dovrebbero invece essere immediata espressione dell’identità del Premio. Il visitatore ha visto sottrarsi la possibilità di seguire un racconto, un filo rosso, un messaggio. E’ vero, c’è stata Antonella Ruggiero, voce e artista immensa, ma evidentemente un evento culturale non si può ridurre alla scelta del singolo artista. E non si può certamente ignorare che, accanto al gradimento per uno spettacolo sul palco centrale finalmente sobrio e scorrevole, forse troppo, si sia svolto anche il surreale scenario di cittadini bloccati dalla security addetta a selezionare gli spettatori prenotati, frutto di una scelta che, sebbene orientata all’ordine ed all’incolumità di tutti, ha ulteriormente frammentato quel sacrosanto concetto di comunità, con l’infausto risultato di dividere, anziché mettere assieme; la Circolare Ministeriale Gabrielli di certo non dice questo.
Anche il paracadute dei numeri, questa volta, non è in grado di salvare il volto del Premio, apparso stanco, invecchiato e privo di passioni.
La colpa non può essere attribuita al poco tempo avuto a disposizione (è già successo), alle nuove disposizioni sulla sicurezza (vigenti dappertutto), alla sovrapposizione di eventi (che c’è sempre stata) o alla nuova amministrazione che, non solo comprende figure che conoscono bene il Premio, ma ha potuto affiancarsi a un CTO che, almeno ai vertici, è il medesimo degli ultimi anni. Anche il costo del ticket poteva essere benissimo giustificato da un’offerta ambiziosa e di alto livello, della quale evidentemente non c’era traccia.
Eppure l’ingente impegno di denaro pubblico avrebbe permesso di fare molto, o almeno razionalizzare meglio le risorse impiegate destinando, per esempio, maggiore attenzione alla comunicazione ed alla grafica, settori che il piano marketing di un evento di tale spessore non può assolutamente considerare secondari ma, al contrario, ripensare in termini di una gestione più ampia, capillare e inclusiva. Le sopravvenute spese per il nuovo piano di sicurezza potevano tranquillamente essere coperte, ad esempio, con la rinuncia alla novità della serata-anteprima, costata 2.500,00 euro e, come già detto, rivolta a pochi intimi.
In definitiva, si percepisce l’assenza, l’arronzo e quella logica del fare tanto per fare che persiste, in modo continuativo, dalla passata amministrazione. Il calo di presenze ci spinge a una riflessione che, in caso contrario, protetti dalla consolazione dei numeri, non avremmo potuto fare. Frutto anche di scelte viziate perpetuate negli anni, il Premio soffre a causa dello stravolgimento progressivo avvenuto nelle ultime edizioni dell’idea iniziale, contenuta in un progetto di sviluppo più articolato, che mirava a presentare ad ogni edizione una nuova strada basolata, una nuova attività commerciale legata alla vendita di prodotti tipici o artigianali, un nuovo piano colori, una nuova illuminazione, palazzi abbandonati finalmente capaci di rivivere e tanto, tantissimo altro.
Si deve continuare ad evidenziare, invece, che nel nostro paese, dopo la pulizia generale del post evento, non riesce a propagarsi nessun’ eco tale da librarsi nel tempo, libera da legami temporanei dell’amministrazione di turno.
Necessariamente, privato del suo significato, il Premio Terre del Negroamaro è destinato a fallire ancora, fino a scomparire. Nessuno vorrebbe assistere a questo inaccettabile decorso, soprattutto chi di quell’evento è stato mente e cuore, braccia e sudore, o anche ‘solo’ occhi, stupore e meraviglia. Il Premio è di tutti noi, esprime l’orgoglio e narra la storia dei cittadini, è il biglietto da visita più bello che abbiamo consegnato a chi ancora non ci conosceva, è una risorsa cui attingere per crescere ancora. Non è una ricorrenza da improvvisare. Non è una serata da confezionare. Non è un contenitore da riempire.
Necessario, da parte dell’amministrazione, fare un passo indietro rispetto all’enormità degli errori commessi, e con umiltà cercare soluzioni concrete.
La costituzione di una Fondazione è una strada possibile, non esente da difficoltà, per recuperare significati perduti, ma che rischierebbe di essere un altro passaggio a vuoto se non si comprende prima, con umiltà e con l’aiuto delle migliori risorse presenti sul territorio, che bisogna TORNARE ALLE ORIGINI, RECUPERANDO LO SPIRITO PRIMORDIALE DEL PREMIO».
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