di Cosimo Centonze | 24 Febbraio 2016
RECENSIONE | Non ci siamo. Il film, seppur ben costruito e portatore di un tema attualmente di dominio pubblico, non raggiunge il suo scopo. E quale altro risultato dovrebbe raggiungere se non quello di provocare una totale condivisione della sofferenza patita da Einar Wegene e conseguentemente provare, se non propriamente la sua passione, quantomeno un sentimento paragonabile al suo?
Niente di tutto questo accade, la distanza dallo schermo è tale per cui nessuna lacrima fuoriesce, e l’ambientazione dello scenario danese dei primi del ‘900 per quanto mirabile e, a tratti assolutamente magnifico, alimenta il distacco dalla scena. Sembra di essere il visitatore di museo passato lì per caso, perché attratto magari da altro. L’opera cinematografica non può nutrirsi unicamente di una bellissima ambientazione e di un tema caldo (fin troppo, oramai non si parla di altro). Abbisogna di ben altro.
In un film a tema drammatico, a maggior ragione se tratta della vita di un uomo, deve obbligatoriamente spingere all’immedesimazione, alla condivisione della patimento e all’abbraccio interiore con i personaggi, affinché ciò accada il regista deve permetterti di entrare dentro il personaggio con tutti i mezzi a sua disposizione.
L’ambientazione, come detto, allontana invece di avvicinare, i personaggi sembrano marionette di uno spettacolo ambulante e non uomini e donne con sentimenti reali, i dialoghi ben costruiti, appaiono luci vacue, scritti da chi del tema non conosce nulla, senza alcune adesione e passione.
L’adesione alla storia di Weger rimane sublimata all’idea iniziale. L’idea di uomo che, pioniere nel campo, non accetta il proprio corpo e contrastando la scienza medica del suo tempo, che lo paragona a un malato mentale (non voglio pensare che ancora oggi ci sia gente la pensi in questo modo) vuole diventare una vera donna.
La trasformazione fisica e la sofferenza patita sono invece di sicura presa in film recente: Hunger di Steve McQueen del 2008, dove, uno dei migliori attori di questi anni, Micheal Fassbender, interpreta Bobby Sands, l’attivista Nord-irlandese, deceduto in carcere a seguito di un prolungato sciopero della fame. E’ in queste pellicole che il suo meraviglioso autore, vincitore del premio Oscar come miglior film nel 2014 per 12 anni schiavo, ti accompagna fin dentro la cella di Bobby e ti rende partecipe del suo calvario e della sua sofferenza, fino a farti provare con piena angoscia tutto il suo patimento, sia come militante, attraverso la scena del dialogo con il prete, ove si descrive pienamente la situazione politica di quel periodo, sia come uomo che rifiuta i pasti lasciandosi morire.
Speculari le vicende di questi due martiri che, per inseguire il loro sogno (sia chiaro qui non si indaga la bontà degli ideali di Bobby Sands, il discorso politico diventerebbe più complesso) mettono a repentaglio la propria vita, differenti i risultati, un esempio su tutti: il desiderio del cambiamento di sesso del protagonista di The Danish girl, viene spinto a vestirsi da donna dalla moglie, a cui serve una modella per un ritratto lasciato incompleto, il fatto di provare calze da donna innesca in Wegere, una spirale da cui non riuscirà a emergere: banale. Cosi come banale è il ricordo della sua prima esperienza sessuale con uomo, quando da ragazzo, fu baciato da un suo amico. Banale il modo in cui il ricordo viene rievocato. Non per ripetermi ma il ricordo in Hunger, di Bobby bambino che si perde nel bosco, e che ritorna nel lui adulto..beh li’ si che siamo di fronte al capolavoro assoluto.
C’è sicuramente del buono anche in questa pellicola, vengono in mente due “cose”: il rapporto del protagonista con la moglie Gerda, questo si davvero commovente, una donna che pur sapendo di andare incontro alla perdita dell’amore della sua vita, fa di tutto per assecondare il suo desiderio e non lo abbandona mai, anche contro il parere dei medici. E’ questo il vero amore, la totale adesione dell’uno nell’altro, il credere fermamente nell’idea della persona amata, anche se ciò comporta la perdita della stessa.
La seconda è la prova gigantesca dell’attore che interpreta Einar/Lily, quell’ Eddie Redmayne già vincitore dell’ambita statuetta come migliore attore ,l’anno scorso per la sua magnifica interpretazione del fisico Stephen Hawking, nel film La teoria del tutto. L’accademy si ripeterà oppure sarà finalmente la volta di Leonardo di Caprio, questa volta capace di dedicarsi alle cure di un orso pur di vedersi assegnato il premio? A domenica 28 Febbraio, l’ardua sentenza.
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