di Cosimo Centonze | 11 Marzo 2016
RECENSIONE | Un documentario italiano vincitore dell’Orso d’Oro al Festival Internazionale di Berlino, uno dei premi cinematografici più prestigiosi al mondo, costituisce uno dei vanti maggiori del nostro cinema, mai come negli ultimi anni in piena forma.
E’ sempre attribuibile a Gianfranco Rosi la conquista del Leone d’Oro al Festival di Venezia nel 2013 con Sacro Gra, ed è ancora recente la vittoria dell’Oscar come miglior film straniero di Sorrentino con la Grande bellezza, come se non bastasse alcuni film italiani sono ai vertici delle classifiche degli incassi (ovviamente Checco Zalone ma anche, ad esempio, la bella commedia Perfetti Sconosciuti).
Lo sguardo convincente e mai eccessivamente ammorbidito del regista sull’isola di Lampedusa si sdoppia, creando una diversa prospettiva: da un lato, la vita degli indigeni in primis il dodicenne Samuele e dall’altro lo sbarco doloroso delle centinaia di persone provenienti dai Paesi in difficoltà.
Samuele vive la sua esistenza in attesa di una maturità che tarda ad arrivare impegnato in giochi con la fionda in attesa di avere l’età giusta per affrontare il mare.
Il ragazzo nel suo peregrinare nell’isola in realtà mai incontrerà i migranti come se ne fosse estraneo, come se quella realtà non lo toccasse, i migranti, invece hanno contatti più che con gli abitanti dell’isola, come le Forze dell’Ordine.
Le immagini che riguardano gli sbarchi sono ovviamente molto toccanti e profonde, così come profondo è il senso d’impotenza che esse suscitano, stesso sentimento provato dall’unico medico dell’isola, che non si abituerà mai all’idea di dover vedere copri martoriati di ragazzini e cadaveri di donne… sono immagini non spettacolarizzate. Gli sbarchi sono stati ripresi realmente e non ricostruiti in studio.
L’occhio pigro di Samuele è una chiara metafora di quanto poco stia facendo il mondo intero di fronte a quest’immane tragedia, un vero e proprio genocidio che riguarda migliaia di persone.
Non si può osservare con distacco l’atroce sofferenza provata da queste persone costrette ad attraversare guerre civili o magari, deserti inospitali fino a prendere il mare in barconi fatiscenti, spesso ammassati nelle rive, senza acqua e cibo per settimane. Che cosa abbiamo fatto noi per nascere qui, comodi e tranquilli e invece perché quei bambini devono essere costretti a giocare tra le bombe e impossibilitati ad andare a scuola? Retorica? Forse si, ma le immagini di questo film-documentario devono essere da monito verso chi dimentica o cerca di sminuire i pericoli affrontati da questi nostri fratelli.
E’ importante questo lavoro, dovrebbe essere proiettato nelle scuole, farlo vedere a tutti i ragazzi affinché possano comprendere che solo attraverso l’aiuto e la collaborazione potremmo avere la possibilità di vivere in un mondo migliore, magari più giusto ed equo di questo.
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