di Cosimo Centonze | 23 Ottobre 2014
RECENSIONE | Bisognerebbe ringraziare pubblicamente Mario Martone. Con questo film, infatti, egli permette alla figura del poeta Leopardi di uscire dai sudati e polverosi scaffali cui sono custoditi i nostri libri di letteratura, regalandogli una dimensione umana. Sicuramente fragile e sofferente, ma indubbiamente dall’animo vivace e rivoluzionario.
Questa umanizzazione avvantaggerà sicuramente gli attuali studenti, che, contrariamente a quanto accaduto a noi “vecchi”, potranno apprezzare le vicissitudini di un loro coetaneo. Il quale, pur lontano nel tempo, provava i loro stessi patemi, le stesse angosce e le simili gioie: dai giochi con gli amati fratelli ai primi sentimenti d’amorosi sensi.
Il momento principe del film è appunto, il racconto fedele, basati sugli scritti e sulle lettere del poeta, della sua vita.
L’infanzia rinchiusa nella casa-biblioteca sovrastata dalla figura imponente del padre, conte Monaldo (Massimo Popolizio), il quale non vuole cogliere i primi vagiti di rivoluzione presenti nel figlio. La cui reale ambizione non è quella di rimanere uno studioso di scritti antichi, bensì quella di diventare egli stesso un autore, o meglio ancora un poeta.
L’anelito di crescita e di scoperta del mondo, impediscono al giovane Giacomo di vivere con serenità la vita nel “natio borgo selvaggio”, da qui il tentativo di fuga.
L’amicizia con Antonio Ranieri (Michele Riondino) gli consentirà di poter vivere in altre città, dove, però mai potrà trovare pace alle sue sofferenze, prima fisiche, minato com’è dalle malattie, e poi ambientali: non sarà mai accettato pienamente dagli altri intellettuali.
Emerge con chiarezza che l’autore, che in molti hanno amato, era in realtà in disadattato, un uomo che non si accettava e non riusciva ad inserirsi nella società civile. Questo perché egli era l’uomo più moderno del suo tempo. Aveva già precise idee di un’Italia unita e presentava, dentro di sé’, gli slanci e le aspirazioni dell’uomo moderno: per questo non veniva capito.
Tutto questo è magnificamente rappresentato dalla recitazione dell’immenso Elio Germano, uno dei migliori interpreti del cinema europeo. Egli riesce appieno a rappresentare la complessa natura del Leopardi: sia le ambizioni poetiche dell’erudito letterato, sia le sofferenze dell’uomo e i suoi ideali di libertà, spesso nascosti e rivelati a pochi intimi.
Le uniche pecche del film sono rappresentate dal momento secondario del film, ovvero il vagabondare, senza senso né meta, del protagonista insieme all’amico Ranieri. Questa parte del film è veramente senza direzione, i personaggi sono troppo sfumati e invero, non si comprendere la reale natura del loro rapporto.
Non è solo colpa della sceneggiatura, ci mette del suo Michele Riondino a rovinare queste sequenze.
La sua interpretazione rappresenta la seconda pecca del film. Egli infatti, nel ruolo di Ranieri, non convince appieno.
Rimane comunque l’ammirazione per il Riondino uomo, e per tutto il suo impegno che sta profondendo per la città di Taranto.
Memorabile il finale con il poeta che recita “la Ginestra” nel fulgenti immagini rosse impresse dalla lava incandescente del Vesuvio.
PS: Se uscite dalla sala, dicendo che il film è lento… sappiate che non è colpa del film! Siamo nel 1800, si parla della vita di un poeta… che vi aspettate un ritmo da videoclip?
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