di Cosimo Centonze | 26 Febbraio 2014
RECENSIONE | Questo film traballa come accade a un tavolino cui una delle gambe è più corta delle altre, di modo che esso non è mai stabile e, se non si pone rimedio mediante un libro ( anche se vi sarebbero modi ben più nobili per usarlo) rischia di farvi cadere la pasta sul pavimento e costringervi a mangiarla chinati cosi, come accade, giusto per restare in tema, nel film “ il bambino e il poliziotto” diretto dallo stesso Verdone nel 1992.
Questo film traballa perché racchiude, nella sua essenza, due anime ben distinte, che mal si amalgamano tra di loro, come i due punti della famosa retta che non si incontrano mai, o due binari morti che proseguono la loro rispettiva linea senza mai incrociarsi.
Ma mentre la natura goliardica, divertente e a tratti pienamente comica raggiunge la propria meta, lo stesso non può sicuramente dirsi per la parte dedicata agli altri aspetti descritti nello svolgimento della storia. Tutto quello che è al di fuori dei limitati ambiti delle gags comiche non funziona appieno, sembra tutto così forzato, cosi innaturale, a tratti, anzi, quasi grottesco. Il giudizio complessivo non può che risentire di questo eterno incespicare, perciò esso non può raggiungere la sufficienza piena, come lo scolaro svogliato che, mentre il maestro spiega, guarda fuori soffermandosi su un cane randagio che passa sotto la finestra.
Non limitandosi a un giudizio secco, si può aggiungere come questa commedia sia un’ altalena che rappresenta l’eterna lotta tra il bene e il male.
Il “male” è rappresentato da una colossale serie di banali coincidenze, le quali danno il là (non er mi) all’avvio della vicenda, ma è di facile riscontro dire che esse siano molto forzate, con quale coincidenza e tempismo atroce il collega del protagonista viene indagato dalle forze dell’ordine proprio in quel preciso istante?
Questo è solo un primo esempio di buchi evidentissimi nella sceneggiatura.
Attenzione! è chiaro che una vecchia volpe come l’immenso e meraviglioso Carlo, qui anche sceneggiatore insieme a Albertazzi, Pignotta e Plastino, in fase di scrittura si sia accorto di un qualcosa che non girava per il verso giusto, non voglio certo affermare che si tratti di un lavoro sciatto e disomogeneo anzi è il contrario, la sceneggiatura è fin troppo studiata, ed è proprio questo elemento che conduce ad una irreversibile innaturalità del tutto.
Questo fa si che la storia rappresenti un déjà vu, non mi riferisco al gloriosissimo e apprezzatissimo passato ma, piuttosto, ai recenti film del regista romano: “Io, loro e Lara” e “Posti in piedi in paradiso”, ma mentre, questi due lavori rappresentano un prodotto più organico, quest’ultimo, invece, lotta arditamente per arrivare alla sufficienza.
Grosse sono le similitudini tra queste pellicole, soprattutto per quel che riguarda, l’elemento che permette di far partire la storia, che è lo stesso: la casa. Era perché aveva ereditato la proprietà della casa che Lara si trasferisce dal prete Verdone, era sempre la casa che faceva conoscere i tre spiantati protagonisti del penultimo film, dove due bravissimi attori come Giallini e Favino interagivano con il migliore Carlo Verdone dell’ultimo periodo, davvero non si riusciva a trovare un altro preteso?
Non è dato capire poi, per quale assurdo motivo un apprezzato manager di una holding finanziaria, quindi un incarico che, sicuramente, presuppone nervi saldi e pugno di ferro, poi nella vita reale sia un bonaccione imbranato che sbaglia carrozzina della nipotina o non riesce a distinguere la scrittura della figlia sulla lista della spesa, certo, si dirà, si trova in un periodo di crisi, non ci sta tanto con la testa, quindi non è lucido, ma non mi pare un argomento convincente, cosi come non si capisce perché una donna simpatica, e solare come Luisa Tombolini (Paola Cortellesi) svolga la professione di “tagliatrice di teste”, cioè colei che risana le aziende in crisi, spesso, facendo ricorso a licenziamenti del personale, e come se non bastasse, impiega il proprio tempo libero a cercare un nuovo lavoro ai poveri disgraziati che ella stessa ha lasciato senza un lavoro.
E’ evidente come questo film, sia diretto a chi vuol trascorrere una serata piacevole al cinema, senza porsi tanti problemi, ed è giusto che ci sia questa aspirazione e porsi in questa prospettiva, dico solo come sia lampante che, ad esempio, la recitazione sia penosa e che i personaggi non siano pienamente delineati ma rappresentino dei meri archetipi: poetessa stralunata, arrivista stronza e artista depresso, soprattutto le figure dei figli sono davvero l’elemento del crimine: fuori luogo, fuori tempo e fuori contesto, sembrano due passati lì per caso.
Si salva il rapporto tra i due veri protagonisti, sempre in bilico tra i rapporti cordiali di vicinato, l’amicizia e la nascita di un qualcosa di più forte.
Il “ bene” è rappresentato, come detto, da una serie di scene esilaranti: come quando Luisa delira e parla di membri maschili o come il già citato scambio delle carrozzine, il film perciò riesce ad arrampicarsi alla salvezza grazie ad un fatto molto semplice: si ride, bisogna ammettere che si ride.
Non è corretto però guardare oltre questo, aspettarsi altro, neppure di una commedia brillante si tratta, altri sono i film che possono essere citati in questa categoria, come dimenticare il meraviglioso “l’ appartamento” di Billy Wilder del 1960 con Jack Lemmon e Shirley MacLaine? Eh si, quelli si che erano FILM!
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